Gragnano

Gragnano

Gragnano è un comune italiano della città metropolitana di Napoli in Campania. È conosciuta a livello europeo come la Città della Pasta. In Italia è infatti la città che produce ed esporta la maggior quantità di pasta, soprattutto maccheroni. Dal 2013, la tipicità della produzione di pasta ha avuto il riconoscimento europeo dell’Indicazione geografica protetta “Pasta di Gragnano”. I primi insediamenti che diventeranno poi Gragnano risalgono al I secolo a.C., quando qui abitava l’antica popolazione italica degli Osci. Nell’89 a.C. si assiste alla nascita del primo nucleo urbano vero e proprio. Arrivò il console Lucio Cornelio Silla per domare la rivolta della vicina città di Stabia. Silla eresse in territorio gragnanese una fortificazione, l'”oppidum sillanum” da cui deriva l’attuale Sigliano. I rivoltosi stabiani si rifugiarono a Gragnano dando vita a un centro urbano che venne chiamato “granianum”, nome probabilmente derivato dalla gens Grania che qui aveva possedimenti. L’economia del piccolo centro era un’economia agricola. I ritrovamenti di antiche ville romane ci dimostrano che la popolazione era dedita all’agricoltura, in particolare alla coltivazione dell’olivo, della vite, del frumento e della frutta. Nelle località alte, la popolazione si dedicava all’allevamento e alla caccia, grazie alla selvaggina che abbondava nelle fitte foreste montane. Nel 79 d.C. Gragnano fu nuovamente meta di emigranti. La catastrofica eruzione del Vesuvio che distrusse Pompei, Ercolano e Stabiae spinse molti stabiesi a rifugiarsi nel piccolo centro allargando così il nucleo urbano. Il periodo che va dal V al X secolo d.C., epoca successiva al crollo dell’impero romano, è molto travagliato. I gragnanesi, come molte altre popolazioni dell’impero, per difendersi dai continui attacchi delle popolazioni barbariche, si rifugiarono sulle montagne dove costruirono le fortificazioni di Castello e di Aurano. Nel X secolo il territorio venne annesso pacificamente, tramite accordi, alla Repubblica marinara di Amalfi che si munì del castello di Lettere e di Gragnano per difendersi le spalle. Il castello di Gragnano, munito di tre cinta di mura costituiva, con il castello di Pino, il castello di Lettere, la torre Massi, nell’omonimo fondo ad Aurano, ed il castello di Pimonte erano il baluardo difensivo verso nord della zona. Così Gragnano cadde nel 1131 nelle mani dei normanni che conquistarono il Ducato di Napoli. La cittadina fu continuamente saccheggiata e, fino all’ascesa al trono di Napoli di Guglielmo II, sopravvisse come regio demanio, qui cominciò un periodo di prosperità economica, caratterizzato dalla nascita dei primi pastifici, periodo che non mancò di catastrofi, come l’epidemia di colera del 1656 e i terremoti del 1684 e 1694, che provocarono molti morti e ingenti danni. Nel 1861 Gragnano, a seguito della sconfitta del Regno delle Due Sicilie, passò sotto il controllo del sabaudo Regno d’Italia. Come in tutto il territorio del regno napoletano tra il 1861 e il 1869, anche qui si verificarono molti episodi del cosiddetto brigantaggio. I briganti (che erano in realtà partigiani del Re Francesco II di Borbone e strenui oppositori del nuovo regno dei Savoia) si rifugiavano infatti sulle montagne circostanti per scampare all’esercito piemontese. Gli anni della prima guerra mondiale misero in crisi l’economia locale e la cittadina ebbe 300 caduti per la patria. La seconda guerra mondiale fu altrettanto catastrofica. Gragnano fu pesantemente bombardata dagli alleati, che distrussero Piazza Trivione e San Vito. Anche il dopoguerra fu un periodo difficile. La situazione di generale arretratezza del Meridione colpì anche la cittadina. Molte attività economiche, come i pastifici, chiusero e molti gragnanesi furono costretti ad emigrare al nord in cerca di lavoro. Nonostante ciò la popolazione continuò a crescere e il boom demografico portò Gragnano da piccolo centro agricolo qual era alla cittadina attuale di circa trentamila abitanti. L’urbanizzazione che incalza dagli anni settanta in poi riguarda tutto il territorio comunale e in particolare l’area di via Castellammare. Il 1980 fu un anno importante: la frazione di Santa Maria la Carità si staccò diventando un comune autonomo, mentre il 23 novembre dello stesso anno Gragnano venne colpita dal terremoto dell’Irpinia che provocò ingenti danni. Sul territorio sono presenti mura di cinta, cinque torri e due porte che testimoniano l’antichità di questa città. Tali ruderi fanno risalire ad un castello risalente, secondo alcuni, alla fine del XII secolo. È presente anche l’unico arco napoleonico di tutta la Campania, tra l’altro recentemente ristrutturato per mantenere lo stato in essere, sito in via Quarantola.

Valle dei Mulini

Da visitare è il famoso artistico presepe situato nella Valle dei Mulini, realizzato dalla passione e dall’ingegno degli artigiani locali, i quali, spinti dall’amore per la tradizione natalizia, hanno dato vita al primo presepio nel 1969. Il presepio allora, ubicato in una posizione e area del paese dall’ambiente rurale, contribuì a dare un tocco realistico al complesso. La Valle dei Mulini è una valle dei Monti Lattari, ubicata nel territorio del comune di Gragnano, dove per circa seicento anni sono stati attivi numerosi mulini, che, sfruttando le acque del torrente Vernotico, producevano farina e, in minima quantità, pasta. Nella seconda metà del XIII secolo, in particolar modo tra il 1266 ed il 1272, per aumentare la produzione di farina, fu data la concessione di costruzione di alcuni mulini, in una valle nei pressi del piccolo borgo di Gragnano, dominato dall’omonimo castello, lungo una mulattiera che congiungeva Castellammare di Stabia con Amalfi: tali mulini sfruttavano le acque del torrente Vernotico, alimentato dalle sorgenti della Forma. Oltre alla presenza di acqua, che assicurava il funzionamento degli impianti anche quando quelli presenti nella Valle dei Mulini di Amalfi erano impraticabili per siccità, i mulini godettero di ottima fortuna per la vicinanza con il mare: il porto di Castellammare di Stabia era infa

tti il luogo dove arrivava il grano e da dove veniva esportato il prodotto finito. Con il passare degli anni la Valle dei Mulini e la sua attività divennero la principale fonte di sostentamento per sfamare la città di Napoli ed i suoi dintorni: proprio per la sua importanza la zona fu coinvolta nella rivolta di Masaniello nel 1647 e da diversi attacchi da parte dei francesi. L’apice dell’attività fu raggiunto durante il XVIII secolo, quando i quasi trenta mulini, appartenenti a diverse famiglie, come i Quiroga, gli Scola o alla chiesa, macinavano oltre un milione e centomila quintali di grano all’anno. A partire dalla metà del XIX secolo, la nuova industria della pasta, che utilizzava farina di grano duro, soppiantò i mulini, che invece realizzavano farina di grano tenero: nel 1859 infatti in città si contavano già novantuno pastifici contro i ventotto mulini; ad aggravare maggiormente la situazione, fu un’imposta del 1869 che imponeva il pagamento di una quota a seconda del numero di giri della macina. L’attività cessò definitivamente intorno agli anni quaranta del XX secolo ed i mulini, abbandonati, furono in parte ricoperti dalla vegetazione: la loro particolare architettura ne fa un interessante esempio di archeologia industriale ed a partire dall’inizio degli anni 2000 l’intera valle è diventata oggetto di visite turistiche, anche in notturna, grazie all’illuminazione delle strutture. I mulini di Gragnano si differenziavo da quelli fluviali per la presenza di ruote verticali e non orizzontali, un sistema messo a punto dagli Amalfitani, questo perché il Vernotico era un torrente che aveva un flusso non costante: l’acqua quindi dopo essere stata canalizzata veniva accumulata in una torre e quindi la pressione esercitata e l’energia cinetica permettevano di far muovere la macina; sovente esisteva anche un’altra torre che fungeva da volano. Il grano veniva poi macinato da due ruote in pietra e la farina ottenuta cadeva direttamente nei sacchi, tramite scanalature: la farina inoltre

era di ottima qualità, mantenendo intatte tutte le proprietà organolettiche, grazie alla bassa velocità del movimento delle macine e del conseguente scarso surriscaldamento.

 

Chiesa di Santa Maria dell’Assunta

La chiesa di Santa Maria dell’Assunta è una chiesa monumentale di Gragnano, situata nella frazione di Castello; nel 1927 è stata dichiarata monumento nazionale. Sono due le ipotesi sull’origine della chiesa: la prima fa risalire la sua fondazione al X secolo, in concomitanza della costruzione del castello di Gragnano, voluto dagli amalfitani per proteggere il loro ducato. La chiesa quindi si rese necessaria per avere un luogo di culto all’interno del borgo fortificato, ma che allo stesso tempo veniva utilizzata anche come arcipretura; altri studiosi ritengono invece sia stata costruita tra il V ed il VI secolo. La chiesa divenne in poco tempo punto focale della zona, sia come centro religioso che economico, tanto che nel 1567 il cardinale D’Aragona ne chiese l’elevazione a vescovado, richiesta che poi non fu mai accolta. Negli stessi anni subì notevoli lavori di ampliamento: venne realizzata una scalinata, grazie all’abbattimento del maschio del castello, che la collegava direttamente alla piazza principale del borgo, fu costruito il campanile e le decorazioni interne cambiarono dal gotico romananico al barocco. Nel 1731 papa Clemente XII trasformò la chiesa in collegiata, qualificata con il titolo di insignis, attributo che le conferiva diversi privilegi, come la presenza di un arciprete e la possibilità di partecipare alla Messa Conventuale: la collegiata, nel 1840, fu spostata nella chiesa del Corpus Domini e definitivamente soppressa tra il 1979 e il 1980. Nel 1927 lavori di restauro interessarono il nartece, nel quale fu riaperto il varco centrale ed ampliati i due laterali, così come era il suo aspetto originario: il 26 luglio dello stesso anno la chiesa fu dichiarata monumento nazionale; altro restauro si è avuto a seguito del terremoto del 1980 che arrecò notevoli danni alla struttura. L’accesso alla chiesa avviene con una scalinata realizzata in pietra vesuviana che porta direttamente al patio, caratterizzato da un nartece, al quale si accede tramite tre archi di tipo arabo siculo: caratteristico l’arco centrale, realizzato in tufo grigio, decorato con teste di gatto e sormontato, nella chiave, da un’edicola in marmo bianco dove è raffigurata la Madonna col Bambino, due angeli e l’Eterno Padre: l’edicola è stata posta in una zona dove fino al 1925 era dipinto un affresco dell’Assunta, gravemente danneggiato. Intorno all’edicola sono posti quattro frammenti triangolari di vetro policromo amalfitano: due decorati con onde stilizzate e due con disegni di stelle. Il portico presenta una volta a crociera, mentre sul muro che da l’ingresso alla chiesa sono disposte quattro lastre tombali dedicate agli arcipreti che si avvicendarono tra il XIV ed il XVI secolo: si tratta di lastre del 1330 appartenuta a Pietro Lonbogobardo, del 1346 a Jacob Marino, del 1498 a Sansone Arcucci e del 1528 a Alfonso de Marinis; tuttavia la maggior parte delle altre lastre tombali sono andate perdute. L’interno è diviso in tre navate mediante otto colonne: questo sono tutte diverse l’una dall’altra e realizzate o in porfido o in granito o cipollino verde o statuario bianco, sono tutte lisce, eccetto una, che presenta ventiquattro scanalature. Tutti diversi anche i capitelli, in ordine sia corinzio, che dorico, romanico o ionico; dalle colonne, senza architrave, partono archi in stile arabo-siculo. La navata centrale presenta una volta a botte, decorata con stucchi. La chiesa, leggermente in pendenza, presenta sotto il pavimento varie tombe, dove venivano sepolti sia persone del popolo che sacerdoti: grazie al rifacimento della pavimentazione nel 1963, è stato possibile fare un’accurata esplorazione, scoprendo che le tombe erano profonde dai quattro ai cinque metri e che, quelle per il popolo contenevano ossa ammassate fino alla sommità, mentre quelle dei nobili e sacerdoti, contenevano casse, alcune delle quali, a causa del passare del tempo aperte, al cui interno si poteva notare scarpe appuntite, cappelli in feltro e vestiti in stoffa rossa. Dopo aver superato il portale d’ingresso, sulla sinistra, è posto il battistero: si presenta con una base rettangolare rivestita di marmi e maioliche, dalla quale si alzano quattro colonne, di cui una sola tortile, di circa un metro e trenta, che sostengono un arco a tutto sesto, sotto il quale è posta la vasca battesimale, risalente al 1592; caratteristici i capitelli delle colonne, formate da foglie e pomi, dipinti in oro. Sul lato destro è invece un’acquasantiera, di un metro di diametro, realizzata in marmo bianco, decorata con petali e scanalature e sorretta da una colonna, abbellite con foglie acquatiche, che termina su un capitello capovolto: l’altezza totale è di un metro e venti centimetri. Struttura simile a questa si trova nella sagrestia e veniva utilizzata dal prete prima di celebrare le funzioni religiose: il lavabo mediceo risale al 1592 e presenta una vasca simile ad una conchiglia, che poggia su di una colonna di tipo romanica. Sull’altare maggiore è posto un trittico, raffigurante la Madonna, San Pietro e San Paolo, opera della scuola napoletana e risalente alla metà del XVI secolo: la Madonna, con manto azzurro, è raffigurata con il bambino tra le braccia su di un fondo dorato, utilizzato come cornice e retto da putti; ai piedi della Vergine, in ginocchio, è raffigurato l’arciprete Loisius Sicardus, committente del dipinto. Sul lato sinistro del trittico è disegnato San Pietro con le chiavi e le lettere, mentre sul lato destro, San Paolo, con la spada e le lettere. Al di sopra del trittico è la tela dell’Assunta, commissionata dallo stesso Loisius Sicardus quando fece realizzate il trittico: è di scuola napoletana e raffigura Maria assunta, in un manto verde, nell’atto di pregare e salire verso il cielo; ai suoi piedi gli apostoli, che guardano il sepolcro, all’interno del quale fiorisce un roseto. La chiesa era sicuramente dotata di un ambone, posto originariamente tra la terza e la quarta colonna, ma a seguito dei lavori di ristrutturazione, nel XVIII secolo, fu smontato per essere ricostruito sull’altare maggiore: ritenuto ingombrante fu diviso in più parti e sparso per la chiesa; la parte centrale, che raffigurava la Rivelazione Divina, fu messa in una torre del castello, trasformandolo in un piccolo tempietto: da tutti, questa sorta di statua, era erroneamente conosciuta come Santo Mamozio. In seguito fu poi riportata in chiesa ed utilizzata come lettorile: si tratta di un altorilievo, in stile romanico, risalente al XII secolo e raffigura, dall’alto verso l’alto, un serpente, simbolo della cultura cosmica, un uomo vestito da guerriero nell’atto di stringere il serpente, simbolo di materia e spirito e l’aquila che afferra con i suoi artigli il capo dell’uomo, offrendogli la possibilità di diventare figlio di Dio; sulle ali dell’aquila, il Vangelo di San Giovanni. Tra le varie opere presenti nella chiesa, diverse statue: la statua di Sant’Antonio risale sicuramente a prima del XVII secolo ed era posta originariamente nella cappella della congrega della Pietà, nella piazza antistante la chiesa; la statua lignea della Pietà, copia di una simile, esposta nel museo di Capodimonte, risalente al XVIII secolo; la statua dell’Assunta, del XVIII secolo, ha mani e capo in legno, con veri capelli e busto in stoffa con ricami in oro: è nell’atto di guardare verso il cielo, con le braccia aperte; la statua del Rosario, molto simile a quella dell’Assunta; la statua dell’Addolorata è del XVIII secolo, con mani e volto in legno e testa coperta da un velo: il petto è trafitto da una spada; la statua del Sacro Cuore risale al XX secolo, è in gesso ed è dipinta in bianco con il manto rosso. Notevole anche la tela del Santissimo Rosario, posta sopra l’ingresso principale, risalente al XVIII secolo, ma alquanto danneggiata dall’umidità: posta in una cornice di legno dorato, raffigura la Madonna, alla quale gli angeli reggono la corona, nell’atto di porgere il rosario a San Domenico e Gesù bambino a Santa Caterina. Il campanile, costruito tra la fine del XV secolo e l’inizio del XVI secolo, è in stile romanico e moresco, è a pianta quadrata, su due livelli, con cupola a base ottagonale, realizzata in tufo e rivestita da maioliche di colore giallo: sulla sommità è posta una croce in ferro battuto con una banderuola. Il primo piano è contrassegnato da due monofore ed una bifora, mentre il secondo piano, che ospita la cella campanaria,

possiede una monofora e tre bifore; la campana fu fusa alla fine del XVI secolo ed è in bronzo. Accanto alla chiesa si trova la casa dell’arciprete, composta da due complessi: uno romanico, con volte a botte, caratterizzato da tre stanze ed una cisterna e un altro, con soffitto a travi in legno di castagno, rifatto nel XVI secolo, per volere dell’arciprete Ascanio de’ Medici, e formato da sette stanze che si aprono lungo un corridoio con colonne decorate a stucco, di cui solo due agibili: caratteristico un forno ricavato all’inizio del corridoio e un’edicola che riporta lo stemma dei Medici.

Gragnano città della pasta

La produzione della pasta, in particolare dei “maccaroni”, che ha reso famosa Gragnano nel mondo, risale alla fine del XVI secolo quando compaiono i primi pastifici a conduzione familiare. Gragnano era allora già famosa per la produzione dei tessuti (da qui piazza Aubry deve il nome popolare di “piazza Conceria”). La produzione dei maccaroni diventò veramente importante solo a partire dalla metà del XVII secolo quando la maggior parte dei gragnanesi si dedicò alla produzione della pasta. La produzione dell'”oro bianco” era ed è favorita da particolari condizioni climatiche, come una leggera aria umida che permette la lenta essiccazione dei maccaroni, e la qualità dell’acqua sorgiva che alimentava i mulini e contribuiva a conferire un gusto particolare all’impasto. L’industria pastaia venne aiutata da ben 30 mulini ad acqua, i ruderi di alcuni di questi si possono ammirare nella “Valle dei Mulini”. Intanto il settore dell’industria tessile entrava in crisi e chiuse definitivamente nel 1783 per una moria dei bachi che bloccò la produzione della seta. Da allora i gragnanesi si dedicarono alla “manifattura della pasta”. L’epoca d’oro della pasta di Gragnano è l’Ottocento. In questo secolo sorsero grandi pastifici a conduzione non familiare lungo via Roma e piazza Trivione che diventarono così il centro di Gragnano. I pastifici infatti esponevano i maccheroni ad essiccare proprio in queste strade. La produzione dei maccaroni non rallentò dopo l’Unificazione, anzi. Dopo il 1861 i pastifici gragnanesi si aprirono ai mercati di città come Torino, Firenze e Milano. La produzione della pasta raggiunse quindi l’apice. Gragnano addirittura ottenne l’apertura di una stazione ferroviaria per l’esportazione dei maccheroni che collegava Gragnano a Napoli e quindi all’intero Paese. Il 12 maggio 1885, all’inaugurazione erano presenti nientemeno che il re Umberto I e sua moglie, la regina Margherita di Savoia. Successivamente i pastifici si ammodernarono. Arrivò l’energia elettrica e con questa i moderni macchinari che sostituirono gli antichi torchi azionati a mano. Il Novecento fu però un secolo difficile per la città della pasta. Le due Guerre Mondiali fecero entrare in crisi la produzione della pasta gragnanese che nel Dopoguerra dovette affrontare la concorrenza dei grandi pastifici del Nord Italia, che disponevano di capitali maggiori. Il terremoto del 1980 aggravò la situazione e ridusse il numero di pastifici a sole 8 unità. Nonostante i tanti

problemi, Gragnano continua a essere la città della pasta. Oggi i pastifici puntano ad una produzione di qualità e propongono itinerari turistici alla scoperta della produzione di quella pasta che ha reso Gragnano famosa in tutto il mondo. Dici Gragnano e pensi alla storia della pasta. Eppure quando gli esperti di vino parlano di Gragnano, intendono un “rosso” le cui origini si perdono nella notte dei tempi. Un vino, più volte citato già da Plinio e Galeno,

dal bel colore rubino, più o meno intenso, con una fine e persistente schiuma rossa. Il grande Mario Soldati, esperto di vini, ebbe a dire che “Il Gragnano un piccolo vino……ma insuperabile; dal profumo vinoso e campestre; frizzantino, e quando giovane addirittura spumoso; pastoso, denso ma allo stesso tempo scivoloso: come un lambrusco di più corpo, come un barbera di meno corpo”. Un vino talmente apprezzato da essere sempre presente sulla tavola dei grandi come su quella delle classi meno abbienti. Tanto più si faceva uso del Gragnano quanto più si era convinti anche della sua leggerezza e dei suoi effetti salutari: “si vis vivere sanum bibe Gragnanum”, se vuoi vivere bene, recita un detto del ‘600, bevi Gragnano. Un vino per tutte le occasioni, da servire a temperatura ambiente, anche in abbinamento alla squisita pasta gragnanese. Gragnano vanta anche una produzione di tessuti, in particolar modo di costumi da bagno. I costumi, che ammontano a circa il 20% della produzione nazionale, vengono prodotti in piccoli laboratori artigianali a conduzione familiare sparsi sul territorio comunale. Il panuozzo è la più recente tra le tradizioni di Gragnano; esso è una specialità alimentare nata nella metà degli anni ottanta e si colloca tra i prodotti da forno. In quel periodo a Gragnano si contavano meno di 10 pizzerie, che, con l’avvento della novità gastronomica, quindi con un aumento vertiginoso della clientela proveniente da tutta l’area circostante della Provincia di Napoli, ma non solo, in appena due decenni hanno superato le 50 unità di numero. Grande aiuto ed impulso allo sviluppo economico in questo campo della ristorazione è stata l’annuale “Sagra del Panuozzo” che dal 1996 è stata organizzata per più anni consecutivi.